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Immagine del redattoreWeb Social Agency

Pride Month: fra etica e marketing


Le manifestazioni per i diritti della comunità LGBTQ+ tornano a colorare di arcobaleno le principali città italiane e del mondo. È in questo contesto specifico che le aziende, ormai da tempo, lanciano durante il mese di giugno attività di marketing e comunicazione dedicate alla valorizzazione dell’orgoglio LGBTQ+. Ma fino a che punto è vero il brand activism di ciascun marchio e quando si rischia invece il rainbow washing?


Questo è il dubbio che ruota attorno al tema e alle sue iniziative e, nel breve termine, non sempre è facile capire se l’azienda sceglie di sposare il tema in quanto impegnata socialmente nell’inclusione e libertà di espressione o piuttosto al profitto, poiché in fin dei conti purtroppo di questo si tratta.

Da un punto di vista commerciale, infatti, si stima che il potere d'acquisto a livello globale della community LGBTQ+ sia di circa 3,7 trilioni di dollari. Senza dimenticare inoltre l’apertura nei confronti di quelle fasce di mercato occupate dalle nuove generazioni (Millenial, Gen Z e Alfa), che sono sempre più vicine ai brand in grado di promuovere azioni di inclusione, supportando le diversità. Ma i brand che si schierano a favore dei diritti di tale comunità giovano sempre di tale mercato? La risposta naturalmente è no e coincide con l’impegno reale e costante dell’azienda.

Rainbow washing: perché evitarlo


Affrontare questo argomento, di fatto, richiede un approccio preciso che necessita nell'immediato della costruzione di una cultura aziendale. Anche perché c'è il rischio concreto di Rainbow Washing, ovvero l'utilizzo dei colori arcobaleno associati a loghi, accessori e altri tipi di comunicazione o prodotti indirizzati al supporto della comunità Lgbtq+ ma senza l'attuazione in concreto di un comportamento consono al messaggio comunicato. In altre parole, per fare marketing bisogna rispettare l'etica delle persone e dei consumatori. Un'azienda non può permettersi di comunicare valori che internamente non condivide e, al tempo stesso, deve trattare questi argomenti con cura e rispetto, mirando ad un qualcosa che sia più ampio e duraturo nel tempo per sfruttare il loro potere comunicativo. Basti pensare agli esempi passati di rainbow washing, come:


· Primark con il lancio della collezione "Feeling Proud“ per il sostegno dei diritti LGBT+. Peccato che produca interamente in Bangladesh, dove l’omosessualità si punisce con l’ergastolo.


· YouTube che ha aggiunto l’arcobaleno al suo logo su tutti suoi canali di social media durante il Pride Month e allo stesso tempo non ha eliminato i contenuti anti-LGBT+ dalla piattaforma.


· Victoria’s Secret che aveva espresso il suo supporto per gli associati e i clienti LGBT+ sebbene non prevedesse modelli transgender per il suo Fashion Show.


Pride marketing: come sostenere davvero la causa Lgbtq+


Come detto finora, ciò che ha davvero valore è il supporto duraturo e coerente della causa. La causa Lgbtq+ merita infatti ascolto e azione anche e soprattutto oltre il solo mese di giugno. Ma come farlo? Basti pensare a quanto fatto ad esempio da Levi’s che ha donato l’intero ricavato della capsule dedicata al Pride 2021 all’associazione no profit Outright Action International, o piuttosto a Lego che collabora con Open for Business, Workplace Pride e Stonewall, associazioni che supportano i dipendenti Lbtq+. Fortunatamente non sono le sole e il nostro auspicio è che sempre più brand, ma anche agenzie, possano seguire la giusta strada nel supporto delle cause sociali.


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Gennaro Scofano,

Social Media Manager




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